Guatemala – Quando una pellicola t’ispira la vita

(ANS –San Pedro Carchá) – Incontro con don Vittorio Castagna, che ha “conosciuto” Don Bosco attraverso un film e da otto anni è missionario salesiano in Guatemala. “Il mio primo ‘incontro’ con il mondo salesiano lo ricordo bene.  Avvenne a Washington attraverso le immagini della pellicola Don Bosco, realizzata dal regista Leandro Castellani nel 1988, in occasione del centenario della morte del santo. Avrò avuto otto o nove anni: mio padre lavorava all’Ambasciata italiana degli Stati Uniti d’America…”.

di: Carlo Tagliani

Che cosa accadde dopo la visione di quel film?

“Quando lasciai gli Stati Uniti per tornare a Taranto incontrai non poche difficoltà ad adattarmi alla nuova vita.  I miei genitori decisero di mandarmi a scuola dai Salesiani. Fui immediatamente conquistato dalla loro serenità e dal loro entusiasmo nel trasmettere, non solo a parole, istruzione ed educazione. E cominciai a domandarmi sempre più spesso: Perché non posso seguire le loro orme?  Perché non posso diventare come loro?”.

E così, nel 2010, sei stato ordinato sacerdote salesiano...

“È stato il coronamento di un sogno che portavo nel cuore.  Ma un altro desiderio, dopo aver ascoltato numerose testimonianze di missionari salesiani si stava facendo strada in me: andare in missione. Fui destinato al dipartimento di Petén, nel nord del Paese. Quando arrivai in Guatemala, però, mi chiesero di fermarmi temporaneamente nel distretto di Alta Vera Paz, abitato dalla popolazione indigena dei Q’eqchi, per sostituire un confratello malato. Da allora sono trascorsi otto anni...”.

Come è stato il primo approccio con la missione?

“Non facilissimo, a cominciare dalle difficoltà legate alla comprensione della lingua.

I Q’eqchi sono una popolazione indigena molto antica, discendente dai Maya. La loro cultura è molto aperta e non ha fatto fatica, nel corso dei secoli, ad accogliere elementi di religioni e tradizioni con cui è entrata in contatto. Accanto ai riti  tradizionali i Q’eqchi hanno accettato alcuni elementi della cultura cristiana che hanno  dato vita a un processo di evangelizzazione che si sta sviluppando all’interno di un forte sincretismo religioso”.

Quali sono i “segni particolari” della tua missione?

“La parrocchia in cui opero è formata complessivamente da 250.000 abitanti suddivisi in 350 villaggi. Oltre che nell’evangelizzazione siamo impegnati soprattutto sul fronte dell’istruzione.  Anche se non possiedono grandi ricchezze, i Q’eqchi sono un popolo felice. Quando s’incontrano si domandano l’un l’altro “È felice il tuo cuore?”: un segno della profonda spiritualità e dello spirito di condivisione che li anima”.

Che cosa ti ha regalato condividere la vita con loro?

“Innanzitutto la dimensione della paternità spirituale.  Vivere la missione mi aiuta a superare progressivamente le barriere interiori e condividere la vita con i Q’eqchi ha rappresentato, per me, una seconda conversione umana e spirituale.  Dopo otto anni al loro fianco credo di avere imparato a osservare, ad aspettare e a rispettare”.

Fonte: Maria Ausiliatrice

InfoANS

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