Sudan del Sud – Don James Pulickal, il missionario salesiano indiano rapito e liberato dopo oltre un anno

(ANS – Wau) – Non è la prima volta che i Figli di Don Bosco pagano con la loro libertà il servizio missionario per le persone più bisognose. Oggi è don Uzhunnalil ad essere sequestrato per la testimonianza coerente del Vangelo, ma prima di lui, nel 1985, toccò ad un altro missionario indiano, anch’egli del Kerala, all’epoca attivo in Sudan. Venne rapito e rimase prigioniero per oltre 500 giorni, ma alla fine fu liberato. Oggi racconta così la sua esperienza, mentre tutto il mondo salesiano si augura che anche per don Uzhunnalil si concretizzi un epilogo analogo.

Don James, lei fu catturato dai ribelli dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA); perché lo fecero?

La cattura e il periodo di crisi come ostaggio per 500 giorni furono dovuti principalmente a motivi di denaro e pubblicità. La mia liberazione fu facilitata dal Nunzio Apostolico ad Addis Abeba, attraverso delle lettere di mia madre, che il Nunzio tradusse e inviò al dott. John Garang (il leader dell’SPLA) con tanto di originali. Aveva con sé 5 lettere di mia madre, nelle quale lei lo supplicava di liberarle il figlio prima che lei morisse di tumore. Il Nunzio era l’intermediario, per questo gesto umanitario ed anche per assicurare il passaggio dei Salesiani attraverso la zona controllata dai ribelli, a partire dal Kenya, lungo tutta la strada fino in Etiopia, e poi di ritorno fino a quando non avessimo raggiunto Lokichokio (Kenya).

Come definisce l’esperienza del rapimento da parte dei ribelli e la vita lì con loro?

L’esperienza nelle foreste con i ribelli e tutto ciò che ne seguì è una lunga storia, servirebbe un altro articolo. Ma, in breve, i primi 50 giorni sono stati un vero e proprio inferno. Non potevo crederci. Piangevo, sfidavo le promesse di Dio. “‘Avete visto un profeta patire la fame, avete visto un profeta girare nudo...’ eccolo Signore, qui ce n’è uno; mi hai dimenticato, ti ho dato tutto e tu sei così silenzioso, mio ​​Signore. Mio Signore, perché mi hai abbandonato…”

Ci sono voluti 50 giorni di privazioni, stanchezza, umiliazione e miseria per farmi arrivare a dire, come Gesù stesso disse: “nelle tue mani, o Signore, affido il mio spirito”. Una volta che mi arresi, il resto dei giorni furono in libertà, serenità e pace, pronto a tutto, alla malattia, alla fame, alla sete, alla nudità (in realtà per 500 giorni non ho avuto nient’altro addosso che i vestiti di quando mi avevano preso) e persino alla morte. Per dirla semplicemente, per quanto riguarda la spiritualità sono cresciuto dall’essere un nano ad essere un gigante.

Quanto ho appreso sulla vita e sull’amore, sul senso e la motivazione in quei 500 giorni potrebbe corrispondere ad una esperienza di 5000 giorni di vita normale. Un periodo che ha compreso i peggiori giorni della mia vita così come i migliori, anzi di più, l’intero processo di trasformazione dal peggio al meglio.

Sono entrato nella vita di prigionia come una fragile canna, ma ne sono venuto fuori come una grande quercia, riconciliato di cuore con chi mi aveva condannato come un ribelle prete e salesiano, pronto per essere un saggio (rishi) che sa amare, un Buddha compassionevole, un Cristo misericordioso e un sacerdote e salesiano.

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