Lei campana, lui veneto. Entrambi hanno oggi 71 anni. Erano poco più che ventenni, quando, nel ‘74, frequentarono un corso dei salesiani che preparava laici per le missioni. Si ritrovarono a scegliere lo stesso progetto: recarsi nella parte orientale dell’Equador al confine con il Perù, nella foresta amazzonica, per vivere con il gruppo degli indios Shuar. Fu un’esperienza frutto della risposta a una chiamata ma che avrebbe fatto germogliare frutti concreti di accoglienza evangelica anche una volta che si dovette decidere di proseguire nei propri ambienti cittadini romani.
Lillina Attanasio e Carlo De Nardi partirono insieme ad altre due persone cui erano stati affidati compiti diversi: due erano geometri, scelti dall’ispettore salesiano dell’Equador alle prese con i lavori ad un hangar per un elicottero che sarebbe servito ai salesiani per arrivare nei villaggi remoti dell’Amazzonia. All’attuale marito Carlo fu chiesto di incentivare la nascita di una scuola professionale per la riparazione di motori con cui i salesiani cercavano di abilitare i giovani per questo tipo di spostamenti. A lei sarebbe spettato di insegnare l’inglese. Proveniva già da una competenza di questo genere ma, proprio per questo, aveva desiderio di misurarsi con un’altra mansione. Si aggregò ad un missionario salesiano e due suore per raggiungere un villaggio: “Il Signore ti parlerà”, le venne detto. “In effetti è accaduto così - racconta - perché mi si presentò una situazione di emergenza in cui riuscii a salvare una bambina”. Arrivati nel primo villaggio, infatti, la gente era in apprensione perché un serpente velenosissimo aveva morso una piccola, era ormai moribonda. Lillina estrasse un pietra che i Padri Bianchi del Belgio le avevano dato da usare come rimedio in questi casi: si rivelò una vera e propria medicina salva vita. La gente del villaggio volle che lei rimanesse là con loro per un po’. “Così restai quasi cinque mesi da sola, raggiunta poi da Carlo e da una volontaria spagnola”.
“Partire per le missioni è guardarsi intorno e vedere con creatività dove è più utile la nostra presenza”, spiega Lillina. Non si tratta, dunque, di avere già sempre tutto preconfezionato: “Noi nel nostro piccolo abbiamo cercato di stare con queste popolazioni con la consapevolezza di tutelare la loro cultura tradizionale e di trovare modalità, laddove possibile, per portare Gesù. In uno stile di inculturazione”. E racconta di come si veniva invitati a turno nella notte, come è consuetudine presso questa gente, da un capo di famiglia per raccontare i propri sogni aspettando l’alba. “Noi approfittavamo di quel momento per introdurre il discorso del cristianesimo, una specie di catechesi. Loro si incuriosivano”.
“Si pensa che il missionario vada a portare qualcosa, in effetti noi abbiamo ricevuto molto di più di quanto abbiamo dato”, precisa Lillina. “Innanzitutto, il senso della condivisione: con gli indios si condivideva tutto. Se andavano a caccia, fosse di un uccello o un cinghiale, si condivideva sempre. Poi il senso della fratellanza: il problema di uno era il problema di tutti. Ci aiutava tanto. Soprattutto, abbiamo sperimentato l’accoglienza, la cosa più bella che abbiamo potuto ricevere. In ogni capanna - racconta - c’era sempre un letto a disposizione, non certo i nostri letti, ma i loro letti di bambù, in modo che chiunque fosse sorpreso dalla pioggia - sappiamo quanto sono pericolose le piogge in quelle regioni - avesse un posto dove ripararsi”.
“Quante volte, invece, noi cristiani - prosegue Lillina - ci tiriamo indietro di fronte a chi bussa alla nostra porta perché in difficoltà! Non lo sappiamo fare”. Se oggi pensiamo al fatto che diversi gruppi dell’Amazzonia - ce lo documenta peraltro la straordinaria mostra fotografica di Salgado in corso a Roma in questo periodo e realizzata proprio in questa area del mondo così a rischio - non sono ancora nemmeno stati contattati dalla civiltà occidentale, ci riesce difficile immaginare questa capacità di affidamento all’altro. “Eppure, è così, loro conservano un’apertura insospettata. Noi invece non sappiamo più vedere nell’altro il fratello. Abbiamo paura, non sappiamo scoprire nel volto di questa gente il volto di Cristo”.
“Certo, noi eravamo molto giovani, anche inesperti sotto tanti aspetti, ma avevamo l’entusiasmo del Concilio che ci chiamava ad andare”, racconta Carlo. “Abbiamo cercato di rispondere con i nostri mezzi. Abbiamo incontrato persone differenti da noi e questo apre anche il cervello al confronto con gli altri. Aiuta moltissimo e non solo come cristiani”. Spiega come il loro impegno in quel periodo era stato aiutare la gente dei villaggi a migliorare un po’ la propria alimentazione grazie a una cooperativa agricola che ha reintrodotto gli allevamenti sul territorio. Una volta tornati nei nostri Paesi di origine, lo stile di condivisione doveva in qualche modo essere riadattato e non poteva affievolirsi. Così, considerando che gli impegni familiari non avrebbero consentito di visitare nuovamente quelle terre, come invece Lillina e Carlo avrebbero avuto intenzione di fare, hanno chiesto in comodato d’uso una struttura che hanno adibito a casa di accoglienza per immigrati e tossicodipendenti. “Sono passati in tanti, siamo arrivati ad accoglierne quasi 600 e abbiamo cercato di praticare qui ciò che avevamo imparato là”. Ora questa casa di fatto non esiste più ma “la porta sempre aperta” del cuore resta pressoché intatta.
Nel Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale, il Papa esorta “tutti a riprendere il coraggio, la franchezza, quella parresia dei primi cristiani, per testimoniare Cristo con parole e opere, in ogni ambiente di vita”. Cosa vuol dire tornare alle origini della prima comunità? “Significa appunto tenere un po’ sempre la porta aperta - ribadisce Carlo - se qualcuno viene e ti chiede un aiuto, tu cerchi di fare qualunque cosa è nelle tue possibilità per aiutarlo. Le prime comunità, del resto, si aiutavano tra loro, questo è il concetto. Oggi giorno le porte vengono sbarrate, invece”. “Il discorso missionario è proprio un dovere dei laici - incalza Lillina - che passa attraverso la preghiera, ma soprattutto attraverso l’azione e la cooperazione. Il Papa insiste molto su questo. Mettere a disposizione la propria vita affinché porti a risposte concrete”. E inserisce l’accenno a un “Natale bellissimo condiviso con un ragazzo angolano salvato da un volontario del ‘CUAMM’: lui era rimasto senza gambe per lo scoppio di una mina. Oggi questo ragazzo ha le protesi, ha due bambini, è diventato medico. Lo abbiamo conosciuto. La vita di questa persona è cambiata. Ecco - osserva - essere missionari significa offrire delle opportunità alle persone, ed è la cosa più bella, basta rispondere generosamente o comunque impostare la vita non servendo i soldi”.
Lillina e Carlo hanno due figli, entrambi hanno sempre respirato un clima di chiesa domestica, aperta all’incontro con l’altro, senza distinzioni. Uno dei due, Giampiero, è diventato sacerdote delle Missioni Don Bosco, ora vive in Guatemala. “Guardava le foto di quello che avevamo vissuto noi, sentiva i nostri racconti...”, conclude Lillina. “Una notte ci portarono dal Tribunale dei Minori un bambino dell’età di mio figlio, era senza scarpe, doveva reintegrarsi in qualche modo. Lui gli donò le sue, senza esitare, di sua iniziativa, senza farsi vedere. Piccoli gesti che già dicevano di un cuore generoso”. Prima della pandemia, Lillina e Carlo andavano ogni anno a trovare il figlio in Centro America: “L’ultima volta abbiamo imparato a fare il pane e i formaggi per un corso da impartire alle donne guatemalteche. Ecco, la missione è in fondo semplicemente questo: rendersi utili, nonostante l’età, in un fare quotidiano attraverso cui passa Gesù”.
Antonella Palermo
Fonte: Vatican News