Di “dolce” per le strade di Luanda, se si escludono i sorrisi dei bambini, non c’è proprio nulla. Fango nella stagione delle piogge, polvere in quella secca, spazzatura tutto l’anno. Nei quartieri periferici non esistono fogne, non passano i mezzi pubblici, non c’è una rete elettrica degna di questo nome.
Nessuna di queste ragazzine è la “bemvinda” (benvenuta): l’ospitalità ha pensato bene di prendere la residenza da un’altra parte, nei quartieri centrali della capitale, tra il lungomare e l’edificio coloniale della Banca Centrale dell’Angola, tra un ristorante turistico e uno degli appartamenti di lusso con vista oceano, tra le finestre a specchio dei grattacieli e le ambasciate dei paesi stranieri.
La “speranza” si, quella c’è e fa tanta tenerezza. Se chiedi a Esperança cosa vorrebbe fare da grande ti risponde “la doctora”, perché non sa distinguere un infermiere da un medico, sa solo che al centro di salute la suora medica i suoi graffi e che vorrebbe essere brava come lei.
La banalità del male la incontri nelle storie di vita di tutte queste ragazzine, già così vissute e consumate prima ancora di raggiungere la maggiore età.
I racconti seguono tutti una spietata falsa riga: padri che abbandonano la famiglia o muoiono, patrigni violenti che le buttano fuori di casa o le costringono a fuggire, madri che non riescono ad affrontare la vita perché prive di mezzi economici e di strumenti culturali. La strada allora diventa matrigna, non ti abbraccia e non ti coccola, ma nemmeno ti respinge, semplicemente è lì, ci scivoli dentro fino a quando non trovi un cantuccio per nasconderti e leccarti le ferite.
E se sei una ragazza è anche peggio. Dulce, Bemvinda ed Esperança conoscono la violenza della strada, inflitta da quegli adulti che sanno benissimo come fare del male. E allora cerchi quelli come te, le sorelle di sventura e i ragazzi che vivono tra i rifiuti di Luanda, perché loro sono gli unici che possono darti protezione. Sei loro grata, te ne innamori, assapori un vago senso di famiglia. E poi resti incinta, non hai mai visto da vicino un ospedale o un consultorio, non sai cosa sia una visita prenatale, vedi solo il tuo corpo che si trasforma e non sai cosa fare. La casa abbandonata in cui vivi, senza il tetto e piena di rifiuti, è il tuo rifugio, l’unico.
Colpisce molto, in queste bambine non ancora diventate donne, la timidezza con cui si raccontano, a volte con lo sguardo a terra, altre volte con gli occhi pieni di lacrime ma senza chinare la testa. Il pudore con cui raccontano le loro ferite è una lezione di vita, di quelle che non impari sui banchi di scuola ma ti restano dentro, ti insegnano a non giudicare, ti chiariscono una volta per tutte quanto la fortuna giochi un ruolo fondamentale nell’esistenza di ognuno di noi.
Di notte, per le strade di Luanda, un’equipe dei salesiani gira con il suo furgoncino alla ricerca dei meninos e meninas da rua. Conoscono i luoghi in cui si ritrovano e i ragazzi stessi, quando hanno bisogno, si fanno trovare. A bordo ci sono un’infermiera e un educatore, che impegnano il loro tempo medicando le ferite e parlando con loro. A volte qualcuno deve essere accompagnato in ospedale perché in strada non è possibile aiutarlo; qualcun altro si lascia convincere ad andare nel centro dei salesiani, dove troverà una doccia e un piatto caldo. Ma questo vale per i ragazzi, per le ragazze un centro al momento non c’è ed è per questo che i Figli spirituali di Don Bosco ne stanno attrezzando uno, dove queste ragazzine, così fragili e vulnerabili, possano avere una chance di riscatto ed essere accudite, anche con i lori bambini.
Si possono medicare i graffi e le botte, ma per l’umiliazione dell’amor proprio il lavoro è molto più complesso e richiede tempo.
Per offrire una speranza a queste ragazzine bisogna davvero metterci il cuore, essere delle mamme e dei papà per sopperire alla loro infanzia negata, convincerle che la loro vita adulta sarà meglio di quella mal vissuta dai loro genitori.
Per ulteriori informazioni, visitare il sito: www.missionidonbosco.org