Per chi vive fuori da Liberia, Sierra Leone o Guinea Conakry – i paesi dell’Africa Occidentale che furono massimamente coinvolti dall’epidemia di Ebola, pagando un tributo di oltre 10.000 morti tra il 2014 e il 2015 – l’Ebola forse è solo il ricordo di una paura, la reminiscenza di un titolo di giornale.
Ma per chi vive in quei paesi l’Ebola è quel nemico invisibile che continua a segnare negativamente la propria esistenza. Non solo perché il virus potrebbe ri-germogliare in futuro e, come ha più volte messo in guardia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), bisogna essere attrezzati a contenerlo in qualsiasi momento; ma soprattutto perché quell’epidemia ha lasciato cicatrici ancora da rimarginare.
I sopravvissuti restano segnati dallo stigma, quasi nessuno vuole prendersi cura degli orfani dell’Ebola e gli operatori sanitari e i becchini vengono rifiutati da amici e vicini di casa. Tante abitudini secolari sono state cambiate: in Sierra Leone, ad esempio, sono stati proibiti i rituali tradizionali per la sepoltura, non si possono praticare sport per le strade…
I paesi colpiti sono deboli, con molte carenze ed equilibri facili da rompere.
La mostra in tal senso intende far vedere, attraverso immagini recenti di scenari, contesti e testimonianze delle persone colpite – con tanto di nome e cognome – le realtà attuali e le perduranti conseguenze sociali dell’Ebola.
“L’Ebola, più in là dell’Ebola” è costituita da 30 pannelli fotografici, ciascuno corredato da spiegazioni dettagliate sull’immagine, e da un banner che presenta il senso generale dell’esposizione e i patrocinatori.
Il fotografo Alfons Rodríguez è autore di centinaia di reportage in paesi diversi, ha esposto i suoi scatti in decine di mostre, è autore di diversi libri – come “Between Gazes” e “El Tercer Jinete. Un mundo hambriento” – collaboratore di numerose ONG internazionali, ricercatore del Centro per l’Immagine e la Tecnologia Multimediale dell’Università Politecnica della Catalogna e co-fondatore dell’iniziativa “Gea Photowords”.
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