“Sono stati osservati dei movimenti tra i rifugiati del Sudan del Sud che attraversano di nascosto i confini non ufficiali, e anche tra campi profughi… Di recente circa 50 camionisti in transito che erano stati in Sudan del Sud sono risultati positivi… I nostri rifugiati nel campo di Palabek non seguono le regole e i regolamenti che potrebbero controllare la diffusione di Covid-19. Per il loro stile di vita, i rifugiati spesso sono incontrollabili” spiega don Jeffrey Albert, uno dei salesiani attivi a Palabek.
La riduzione delle razioni alimentari è un altro evidente problema nell’insediamento: il cibo disponibile è calato del 30% e per una persona adulta è quasi impossibile mantenersi per un mese. “Questo può generare fame, malnutrizione e anche frustrazione, rabbia e altri disordini sociali” osserva da parte sua don Lazar Arasu, responsabile della presenza salesiana a Palabek.
Anche la salute desta preoccupazione. I servizi medici forniti ai rifugiati sono sempre stati scarsi: ci sono sole tre unità sanitarie, con strutture minime, per oltre 56.000 rifugiati, e queste strutture sono condivise da diverse migliaia di cittadini ugandesi dei dintorni. Ora, a causa dell’isolamento, i servizi medici sono ancora più difficili, e si assiste ad un aumento di malattie come ulcere gastriche e di altri problemi legati alla cattiva alimentazione.
La chiusura delle scuole decretata a livello nazionale tocca anche le 11 scuole primarie, la scuola secondaria e la scuola tecnica presenti nell’insediamento. Stando a casa, con meno cibo di prima, senza lezioni, senza distrazioni di alcun tipo (sono state chiuse anche le strutture per fare sport e altre attività giovanili), i bambini e i giovani sono stetti tra angoscia e nervosismo. Diversi adolescenti e giovani adulti hanno assunto atteggiamenti antisociali e una vita sessuale sregolata. Il governo sostiene l’apprendimento online, ma questo è praticamente impossibile per i rifugiati.
Come in quasi tutto il mondo, anche le cappelle all’interno dell’insediamento sono state chiuse: ma nel contesto di un campo profughi non poter vivere la liturgia, la comunità, ciò è significato perdere anche quel minimo di sostegno spirituale e psicosociale che i religiosi potevano offrire.
In questa realtà, che attanaglia i Figli di Don Bosco, così come tutti gli abitanti dell’insediamento, i salesiani fanno quel che possono. Finché era loro permesso, hanno distribuito un po’ di cibo alle persone affamate oltre confine che chiedevano aiuto alimentare; e hanno stampato del materiale didattico e l’hanno fatto circolare tra i loro allievi, ma sperano di ricevere qualche donazione per poter acquistare dei libri di testo effettivi.
Conclude don Arasu: “Anche noi missionari siamo spesso stressati, a volte mancano i bisogni primari, e ogni tanto ci ammaliamo. Come i rifugiati, anche noi non vediamo l’ora che finisca l’epidemia, per poter servire meglio i nostri amati rifugiati… E ai nostri benefattori diciamo: vi ringraziamo per il vostro generoso aiuto e vi assicuriamo che il vostro aiuto li raggiunge velocemente. Promettiamo di mantenerci in stretto contatto con voi, vi assicuriamo le nostre preghiere e vi chiediamo di pregare per noi”.
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