L’oratorio salesiano di Aleppo in questi anni ha continuato a essere un punto di riferimento per i ragazzi e le famiglie che lo frequentano. “All’inizio della guerra, nel 2012, siamo stati costretti a chiudere l’oratorio per sei mesi, perché nessuno sapeva che cosa sarebbe successo. Ma quando ci siamo resi conto che il conflitto sarebbe durato a lungo, abbiamo deciso di riaprire. Non c’era altra strada: dovevamo farlo. Restando chiusi nelle loro case, i ragazzi sarebbero impazziti. Abbiamo cercato di offrire loro qualche spazio di normalità, mentre intorno di normale non era rimasto più nulla” spiega il giovane Direttore dell’opera, lui stesso aleppino, don Pier Jabloyan.
Prima della guerra la Siria era un esempio di integrazione. “Ho trascorso la mia giovinezza con ragazzi di diverse religioni ed etnie: sunniti, sciiti, drusi, alawiti, curdi, armeni. Siamo cresciuti insieme, abbiamo condiviso moltissimo. In quegli anni era normale” prosegue il Salesiano. Purtroppo però poi è iniziata la catastrofe, “perché quando si entra nella spirale della violenza, tutto viene stravolto”.
Ora, dopo sette anni di conflitto, Aleppo è prostrata. Molte industrie e officine, cuore dell’economia locale, sono ridotte a ruderi, migliaia di famiglie sono fuggite, i Cristiani sono passati da 150mila a 30.000. Nonostante tutto, si lavora per ricostruire una normalità. “Le condizioni di vita stanno lentamente migliorando, nelle case è tornata l’acqua e l’elettricità arriva per 3-6 ore al giorno” precisa don Jabolyan.
Una delle tante attività mantenute è quella del doposcuola, rivolto a circa 70 ragazzi e organizzato coinvolgendo una decina di studenti universitari: “Ci sono enormi bisogni educativi. Molte scuole sono state distrutte o trasformate in luoghi di accoglienza per sfollati e oggi in una sola classe possono esserci anche 45 alunni… Se uno in casa non ha acqua, né elettricità e fatica a sfamarsi, è difficile dirgli ‘mettiti a studiare’. Ma Don Bosco ci insegna che istruzione significa futuro. Per questo abbiamo resistito, offrendo ai ragazzi quello che avevamo: i nostri spazi, la merenda, l’impegno dei nostri giovani”.
Le bombe e le granate non hanno trattenuti i Figli di Don Bosco dal tentare le iniziative più ardite. Racconta sempre don Jabloyan: “come quella volta in cui organizzammo un campo estivo per 180 ragazzi, sulle alture di Kafroun (a 200 km da Aleppo, NdR). L’organizzazione era complicatissima, pensai che era una pazzia, ma che valeva la pena tentare, pur di offrire ai nostri giovani qualche momento di serenità. Molti di loro non avevano mai lasciato Aleppo ed erano cresciuti sentendo, come unico sottofondo, i colpi dell’artiglieria. Il campo andò benissimo e al ritorno un papà mi disse: ‘volevamo abbandonare la città, ma quando abbiamo visto i nostri figli contenti abbiamo deciso di restare’”.
Durante la guerra l’oratorio stesso ha contato alcune vittime tra i suoi giovani frequentatori. E sui sopravvissuti pesano tante ferite, come riporta don Jabloyan: “in tutti la guerra ha creato problemi psicologici. La soglia della sensibilità si è molto alzata: la notizia di uno o due morti rischia di non fare più effetto. Spesso i ragazzi si esprimono con durezza e talvolta una partita di calcio può diventare il pretesto per far esplodere l’aggressività. Anche su questo cerchiamo di accompagnarli e aiutarli a ricordare che loro sono migliori di ciò che hanno intorno, come tante volte ci hanno dimostrato”.
La pagina Facebook “Don Bosco Aleppo” è oggi una valida testimonianza delle tante attività dell’oratorio e dell’impegno salesiano ad offrire una normalità fatta momenti di preghiera, feste liturgiche, musica, spettacoli teatrali, bambini e ragazzi sorridenti… “Questo è il nostro stile – conclude don Jabloyan – puntare sulla bellezza e sull’incontro”.
Fonte: Famiglia Cristiana