Con qualche apprensione, arriva il giorno dell’incontro che sarà anche il primo giorno in cui faccio esperienza di Chiesa. O meglio, della Chiesa predicata e vissuta dai figli di Don Bosco. L’allora Decano, pioniere nello studio degli strumenti della comunicazione sociale nel mondo cattolico e prete offerto all’educazione dei giovani, mi spiega le ragioni di quell’appuntamento inatteso: “La Facoltà è vecchia - dice -, abbiamo iniziato i lavori per la realizzazione della nuova struttura, ma ci vorrà almeno un anno per ultimarli. Siamo felici di averti tra i nostri studenti, ma non sono certo che le aule e gli spazi comuni siano confortevoli. Ci facciamo un giro e vediamo di trovare insieme qualche soluzione?”.
Quel giro, iniziato sul finire di un’estate che sembra ieri e che invece è lontana quasi un quarto di secolo, non è ancora terminato. Prima tra le periferie del mondo, con compagni di studio scappati attraverso la foresta dalla furia omicida degli estremisti islamici in Africa; o venuti a Roma dal Libano per comprendere se quel sussurro di fede avvertito in mezzo al suono dei minareti di Beirut fosse davvero la vocazione da mettere al servizio della Chiesa. E poi nell’impegno sociale nel campo della comunicazione e dell’informazione, tenendo fede (o almeno provandoci) all’invito di Don Bosco a lavorare senza ricercare la lode perché “il mondo è un cattivo pagatore e paga sempre con l’ingratitudine”.
Lui che, in gioventù, era stato sarto, barista, falegname, fabbro, calzolaio. Che aveva messo le mani al servizio dei bisogni degli altri, prima di iniziare a occuparsene a partire dall’anima. Instancabile nell’operosità pastorale, aveva presto aggiunto al quotidiano stare tra i giovani anche un incessante impegno di divulgazione libraria, sottraendo il tempo al sonno per non rubarlo ai suoi ragazzi: scrittore inesauribile, con oltre centocinquanta opere di carattere didattico e apologetico, editore audace, con la creazione di una tipografia che fungeva da scuola grafica per avviare al mestiere editoriale e da fucina di diffusione per ampie collane come le “Letture cattoliche” o la “Bibliotechina dell’operaio”.
Poco più che adolescente, Don Bosco fonda la Società dell’allegria: organizza giochi, letture, conversazioni. Obiettivo: che tutti siano allegri. Divieto: che niente produca tristezza o malinconia. Chi si lasciava andare a discorsi malevoli, doveva abbandonare la Società. E pensare che lui, che della gioia aveva fatto una ragione di vita, era nato con un dolore nel cuore. Il primo ricordo che conserva, infatti, è la morte del padre. Don Bosco ha due anni quando papà Francesco non torna più a casa: si guadagnava da vivere con il sudore e una sera, nella cantina del padrone, lo coglie una febbre da cui non guarisce. Eppure, il suo motto, fino all’ultimo giorno, sarà all’insegna della gioia: “Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri”. Un impegno e una promessa per chi crede ancora oggi nella straordinaria proposta del Santo dei giovani.
Riccardo Benotti,
Caposervizio dell’agenzia
Fonte: Avvenire