di Beatrice Borio
Quale è stata la sua reazione in seguito al sisma?
Una sensazione da far paura. Durante le scosse c’è la percezione che tutto stia per franare e allo stesso tempo finire. Quella era una notte di festa della comunità perché festeggiava la sagra della pasta all’amatriciana. Improvvisamente invece la vita si capovolge in qualcosa di impensabile e di inimmaginabile. Nel momento della prima scossa mi trovavo a Lourdes ma quando mi hanno avvisato di ciò che era successo, ho preso il primo volo e quando sono arrivato ad Amatrice il primo incontro che ho fatto è stato con il fornaio Valerio che si era trasferito da sole tre settimane. Mi ha condotto dietro la casa completamente distrutta mostrandomi in mezzo alle rovine tre sacchi neri dai quali uscivano dei piedi. Indicandomeli uno per uno mi ha detto: “Questa è mia moglie e questi i miei due figli”.
In seguito a queste catastrofi, non si chiede mai dove sia finito Dio?
Per rispondere a questa domanda devo prima riprendere la frase che dissi proprio durante i funerali delle vittime: il terremoto non uccide ma uccidono le opere dell’uomo. Il terremoto è sempre esistito, l’unica responsabilità di queste vittime è l’uomo. Infatti gli stessi geologi hanno detto che il centro storico di Amatrice venne costruito sulle macerie di un vecchio e tremendo terremoto del Settecento. Infatti la fragilità di questo terreno è data dalla sua stessa inconsistenza. Oggi abbiamo di fronte scelte difficili che non devono rispondere all’esigenza di comodità o di un tornaconto da parte dei costruttori. Per questo motivo non si può assumere un atteggiamento del tutto fatalista contro il destino o contro un Dio che viene utilizzato quando non si riescono a trovare delle risposte.
Dopo il terremoto, nella comunità è prevalsa la solidarietà o l’egoismo personale?
Paradossalmente un aspetto positivo del terremoto è che permette di ritornare all’essenzialità dei rapporti e conferisce la forza di ristabilire i legami. Ma ci sono anche persone che non riescono a sopportare tutto questo come un uomo che poche settimane fa ha deciso di impiccarsi. Ognuno reagisce alla propria maniera. Certamente nessuno di noi può farcela da solo ma abbiamo tutti il bisogno degli altri al nostro fianco.
Cosa bisogna fare oggi a sette mesi dal disastro?
Ricostruire non è solo un compito dello Stato. Ricostruire richiede l’aiuto di una comunità che non badi solo ai propri interessi senza guardare al bene comune, immateriale e dunque più raro, ma anche condizione perché si possa fare qualcosa. Bisogna dunque stare accanto alle persone e proprio per questo ho deciso di scrivere un libro con la biografia delle 200 vittime del terremoto. Poi, aiutare le piccole attività locali che dopo la distruzione hanno perso tutto e non hanno niente di cui vivere. Infine, ricreare i luoghi della comunità, come anche le chiese, affinché si possano trovare dei punti di riferimento.
Come si è comportata la complessa macchina dei soccorsi?
Gli uomini della protezione civile in questi anni hanno subito un forte ridimensionamento statale. Certamente sono stati di primaria importanza per l’aiuto nei confronti delle prime necessità ed esigenze. Ovviamente tantissimi di loro hanno fatto più del necessario, già solo rimanendo non pochi mesi ma fino ad oggi al nostro fianco.
Quale è stata l’immagine più dolorosa e quella più rasserenante di questa terribile vicenda?
Le immagini dolorose sono molte, soprattutto quando si ascolta i racconti delle sofferenze dei cittadini e si prova una sensazione di impotenza davanti a tanta disperazione. L’importante in queste situazioni è stare accanto alle persone. Le immagini più belle sono i battesimi dei primi bambini nati dopo il catastrofico terremoto, che portano con il loro sorriso una speranza di rinascita.
Su YouTube è disponibile anche una video-intervista a mons. Pompili, a cura della redazione de “Il Salice” (l’intervista è di Lorenzo Comba, video e montaggio di Matteo Masoomi Lari).
Fonte: Il Salice