Barrio Nuevo, Zarate, cento chilometri a nord della città di Buenos Aires. È una nuvolosa mattina d’inverno, dove il freddo si sente più forte quando l’unico riparo è il proprio cappotto. Plastica, cartone e lamiera sono i materiali utilizzati nelle case di questo nuovo quartiere della città.
In un semplice appezzamento di terra, un gruppo di uomini distribuisce porzioni di stufato; in totale, circa un centinaio al giorno. Stanno cucinando dalle nove del mattino e, anche se non sono sempre gli stessi, lo fanno dal lunedì al venerdì, a partire dall’anno scorso. Hanno iniziato le attività dal giorno prima, condividendo la colazione, una preghiera e una chiacchierata.
Colpiti dalla vita - e dalla morte - hanno preso la decisione di cambiare. E questa disponibilità ha aperto loro le porte dell’“Hogar de Cristo”, dove vigono due regole fondamentali: niente uso di sostanze e niente violenza. Per il resto, non conta cosa hai fatto o da dove vieni. Ci sarà tempo per questo. Prima si viene accolti, si aspetta, si ascolta. Perché la cosa più importante è già avvenuta nel decidere di arrivare lì. Come sintetizza Tomás, 23 anni: “Ci sono tre possibilità davanti ad una persona che fa uso di sostanze: carcerato, pazzo oppure morto... E io non volevo nessuna di queste tre cose”.
Questo è il motto dell’“Hogar de Cristo”, una risposta concreta alle necessità dei tossicodipendenti delle baraccopoli e dei quartieri poveri, nata una decina di anni fa su iniziativa di alcuni “cura villeros” (sacerdoti delle baraccopoli) di Buenos Aires. La proposta è stata raccolta cinque anni fa dall’opera salesiana di Zarate, attraverso l’iniziativa di don Antonio Fierens, che ha aperto anche uno spazio di prevenzione per bambini e adolescenti ogni pomeriggio, dal lunedì al venerdì. In maniera tipicamente salesiana, mira a prevenire prima che si sviluppi una dipendenza.
Nel 2021 è stato compiuto un ulteriore passo: l’apertura di case di accoglienza per persone che vogliono uscire dalla dipendenza. Questo, come spiegano i salesiani don José García e don Carlos Morena, avviene attraverso diverse tappe o “soglie”, ognuna in una diversa casetta, tutte molto semplici: “Chiunque arrivi ferito o ‘rotto’, sarà accolto con affetto. Dopo aver trascorso un po’ di tempo, i ragazzi vengono portati in una fattoria, dove trascorrono circa quattro mesi, soprattutto per guardarsi dentro. Per il tossicodipendente è molto importante scoprire qual è il suo dolore. E non per coprirlo con qualche sostanza, ma per guarirlo. Poi i ragazzi arrivano qui, in una nuova tappa, dove stanno fortificando gli strumenti per affrontare il consumo di sostanze. E in un’ultima soglia possono andare a lavorare, gestire i loro soldi, cercare di recuperare la loro famiglia, i figli...”, spiega don Morena, il Direttore dell’opera.
Il processo non è sempre lineare. Molti hanno ricadute e tornano a drogarsi. Ma l’“Hogar” apre loro comunque la porta. “La prima cosa che i ragazzi fanno quando arrivano è mangiare e dormire, perché magari hanno appena trascorso una settimana ‘sballati’. Nel giro di pochi giorni riacquistano il peso perso, perché i farmaci gli hanno fatto venire voglia di mangiare”, prosegue don García. Anche se ci sono alcuni più giovani, in generale si tratta di ultratrentenni: “Raggiungono un’età in cui non possono più sopportare di continuare a consumare e scappare; il loro corpo dice ‘basta!’”.
La stessa scena si ripete in una casa del quartiere Reysol, nelle sale della cappella di “San Alfonso” e della parrocchia “San José”: le stesse persone che sono in fase di recupero cucinano il cibo per le “pentole popolari” (mense per i poveri) che ogni giorno sfamano circa 800 persone delle zone circostanti.
“Ci alziamo presto per preparare tutto. Ci aiuta a sentirci utili. Molte volte rubavamo alle persone. I ragazzi che non hanno nulla sanno solo rubare per potersi drogare o per mangiare. Oggi siamo dall’altra parte, cercando di fare le cose per bene e di non commettere più gli errori che abbiamo fatto. E la gente ci sostiene per quello che facciamo, anche se ci sono altri che non capiscono”, dice Raúl, 48 anni.
Lui è nato a Misiones, ma è originario di Quilmes, luogo dove deciso finalmente di andare in comunità di recupero. È uno degli “accompagnatori alla pari”, persone che sono riuscite a vincere la dipendenza e che coordinano la vita in ogni casa. “Sono ‘pulito’ da un anno e otto mesi. È difficile, sto ancora lottando. La dipendenza non si cura, si tratta. Vivo insieme ai tossicodipendenti, ci aiutiamo a vicenda perché ci capiamo, possiamo parlare”, aggiunge.
La solidarietà e il senso di famiglia fanno parte dell’identità delle case, dicono i salesiani. La maggior parte dei detenuti di Zarate non proviene da lì, ma da altre città e quartieri dell’agglomerato di Buenos Aires. D’altra parte, ci sono venti ragazzi di Zarate nella fattoria di recupero che i religiosi hanno a Villegas, presso La Matanza. Uscire dal loro quartiere, lontano da chi offre loro la droga, è un modo per aiutarli a riprendersi.
“I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla, e ringrazio Dio per questo, ma non mi hanno mai dato amore. Preferivano darmi dei soldi piuttosto che portarmi a scuola. Avendo tutto e non avendo nulla, all’età di 14 anni ho iniziato a drogarmi con mia madre e ho finito per farlo con tutta la mia famiglia”, racconta Tomás. È arrivato da Concordia e oggi è arrivato alla quarta “soglia”: frequenta un corso per diventare parrucchiere presso il Centro di Formazione Professionale salesiano, un mestiere per il suo domani.
Jesús, 32 anni, racconta: “Praticamente non ho mai lavorato in vita mia; ho perso il mio ‘vecchio’ quando avevo 12 anni. Non so cosa sia l’amore di un padre. Dall’età di 12 anni ho iniziato a vivere per strada. Ho iniziato con il puchito, sono passato al porrito... finché non ho iniziato a prendere le cose degli altri e ho capito che mi piacevano i soldi facili. Ho lavorato solo per due mesi e alla fine della settimana guadagnavo seimila pesos (circa 45 euro), che invece a modo mio potevo ottenere in un’ora”. Oggi anche lui è “accompagnatore alla pari” in una delle case di riabilitazione, e aiuta gli altri ad affrontare le dipendenze: "Ogni mattina ringrazio Dio per un giorno di vita in più, perché mi posso alzare dal letto, per il tetto, per le lenzuola, per quello che abbiamo da mangiare”.
Sono le persone che hanno vissuto la tragedia della dipendenza - e che sono sopravvissute - a smascherare una società che lascia fuori una fascia sempre più ampia di popolazione, senza la possibilità di guadagnarsi da vivere con dignità, di ricevere un’educazione, di sedersi a tavola come una famiglia. “Abbiamo bisogno che la società non si giri dall’altra parte, che aiuti, che si faccia domande. Bisogna capire perché quel ragazzo è così, perché ruba, perché si droga, qual è il suo dolore, cosa è successo nella sua vita... parlarne”, riassume Raúl.
Ritorniamo al Barrio Nuevo. Le porzioni di stufato sono già state distribuite tra i vicini e i ragazzi hanno condiviso il pranzo con don Moreno. “Nacho”, 35 anni, che lavorava come muratore, ora coordina i lavori. Stanno costruendo una semplice casetta dove potranno venire a vivere altre persone che hanno bisogno di guarire dalle dipendenze. “Quando sono arrivato all’’Hogar’ mi hanno tenuto in un posto al caldo, con un letto e una coperta. Per questo io, con il cuore, cerco di farlo in modo che gli altri ragazzi, quando arrivano, abbiano un posto dove stare, un posto dignitoso”, dice Nacho, mentre mette la nuova porta alla piccola casetta... una porta che sarà sempre aperta.
La merenda, poi, non manca mai in tutti gli oratori che si tengono ogni sabato in diversi quartieri della città. “I salesiani che sono venuti a Zarate volevano vivere accanto ai più poveri, accompagnarli e lavorare con loro. E questo spirito si è manifestato pienamente – prosegue don Morena –. Questa povertà continua, e fa male, perché è ingiusta, strutturale, frutto di una disuguaglianza molto profonda. Chi cammina per le strade della città non esita a sottolineare che, soprattutto dopo la pandemia, si sono aggravati tre problemi: la fame, la mancanza di lavoro e lo scarso accesso all’educazione”.
Per affrontare i problemi più urgenti, dopo la pandemia sono state organizzate le “ollas populares” in diversi quartieri della periferia della città. La realtà della situazione li ha costretti a continuare ancora il loro lavoro, e attualmente distribuiscono dal lunedì al venerdì, circa 800 pasti.
Un’altra sfida importante è la preparazione al mondo del lavoro. Per questo motivo ci sono i corsi di refrigerazione, falegnameria, elettricità, saldatura, per fabbro, parrucchieri e panettieri che il Centro di Formazione Professionale “P. Mario Leonfanti”, dal nome del suo fondatore, sono molto apprezzati e utilizzati dalla comunità. Come spiega Morena: “Offrono loro la possibilità di iniziare qualcosa. Il nostro sogno è che questo porti anche ad alcune cooperative, aiutando le persone a sentire che non dovranno solo provare sopravvivere per tutta la loro vita. Stando insieme, tutto diventa più facile”.
E se si tratta di lavorare con gli altri, c’è anche l’impegno di giovani e adulti; i primi animano diverse proposte oratoriali, i secondi curano una rete di cappelle. “Questa è la risposta di Don Bosco ai bisogni dei ragazzi. Per avere un luogo diverso, dove sentirsi una famiglia, vivere insieme in modo diverso e sognare cose nuove e belle per il futuro”, riassume don Morena.
L’“Hogar de Cristo” lavora a tutte queste proposte. “Stare dalla parte dei ragazzi più poveri e abbandonati, fornire una risposta con l’educazione, che sia umana e integrale. Non c’è molto altro da fare. Ed è salesiano fino al midollo. Nel nostro piccolo, nel quotidiano, si tratta di seguire Gesù. E questo ci dà grande forza”, conclude il salesiano don García.
In rete è anche accessibile un video che presenta il lavoro dei salesiani a Zarate.
Ezequiel Herrero e Santiago Valdemoros