La sua vita offerta per la salvezza delle vocazioni e la «perseveranza nella vocazione», i 18 anni di sofferenza nelle carceri o in libertà condizionata e soprattutto la sua morte hanno contribuito, molto concretamente, all’edificazione della Chiesa e della società del tempo. Innanzitutto hanno permesso a una ventina di giovani di raggiungere la méta altrimenti impossibile del sacerdozio; quindi ne ha incoraggiati molti altri a «non lasciarsi rubare la speranza», e ha generato nei Salesiani una mentalità di pastorale vocazionale che ha permesso alla Congregazione di non estinguersi mai del tutto in quelle terre (dal gennaio del 1969, mese della morte di Titus, e negli anni immediatamente successivi sono fiorite più di 100 vocazioni nei gruppi di preghiera segreti vicino a Bratislava, per limitarsi a un esempio).
L’allora provinciale don Andrej Dermek SDB il giorno del funerale può pertanto dire: «alcune decine di preti salesiani ti ringraziano per il loro sacerdozio»; persino dalle spie del regime presenti ai funerali attestano il suo martirio e la sofferenza «per la fede e il popolo slovacco». La stessa conversione del giudice Pavol Korbuly, responsabile della condanna di Zeman ma divenuto più tardi cristiano, e pronto a chiedere perdono insieme alla propria famiglia per avere condannato «una ventina di salesiani innocenti», è un frutto della vita martiriale del Beato Zeman. Anche il direttore comunista che lo aveva licenziato nel 1946 si converte, come altri che egli incontra negli anni del carcere. La presenza di don Tito fiorisce quindi in incontri che cambiano tante vite, e le avvicinano al Signore. Occorre inoltre ricordare che – tra i chierici portati da Zeman a Torino –alcuni rientrarono in Slovacchia, altri rimasero all’estero con incarichi di docenza, e altri ancora diventarono missionari. Il giorno dei suoi funerali, ci fui anche la testimonianza da parte di un pastore luterano, segno che proprio il sangue dei martiri “crea” un ecumenismo che abbatte le barriere e genera fratellanza.
Come ha detto papa Francesco: «Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”… un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo». (Udienza del 28 giugno 2017).