«La domenica si andava al ritiro “delle cinque” nella chiesa dei Salesiani. Non era solo un’abitudine, né sempre un empito spirituale, a portarci dentro il fiato caldo un po’ stordente di quella stipatissima funzione pomeridiana. Forse, più di tutto, ci attirava la “marchina” che dava diritto ad assistere, di lì a poco, gratuitamente, al film proiettato nella sala parrocchiale. Un piccolo ricatto fin d’allora perdonato a don Rossi, ricattato da noi mille volte. Che prete! Alto come una pertica, abile nel far prendere alla veste il giro giusto quando si voltava, e fasciato in vita così da lasciare immaginare un corpo di atleta, mi chiedevo quale disastro lo avesse castigato dentro quel nerume!».
«[..] Quanto a noi, i ragazzi dell’Oratorio, eravamo già in vena di domande, sebbene capissimo che le risposte sarebbero arrivate con qualche prudenza, e solo ogni tanto un fuggevole azzardo per non scoraggiare le nostre attese più temerarie. Perché Dio sceglie di nascere sulla Terra, attraverso Gesù, dopo millenni dal cosiddetto big-bang? E proprio in quell’anno, in quella notte, e in un luogo per giunta con poca acqua, pressoché privo d’ombra, il telefono e la radio? Secondo una scuola luterana, ci spiegava il salesiano don Rossi, la ragione per cui il Verbo, la parola, si fece carne (Giovanni 1, 14) e “venne ad abitare in mezzo a noi”, duemila anni fa, apparteneva al tempo in cui il Logos, il pensiero, si distendeva lungo le coste del Mare nostrum grazie all’avvento della scrittura».
«[..] Rammento che da fanciullo, nella chiesa dei Salesiani a Rimini, domandai a don Rossi se avesse mai pensato alla nascita di Gesù come a una sorta di favola sacra, con cui lasciar dolcemente dondolare l’idea di Dio nella mente di noi bambini.
Si sedette su una panca tenendomi in piedi davanti a sé, per avere i suoi occhi nei miei, e la risposta venne quasi la dovesse a sé stesso, raccontando con quali parole, in seminario, se l’era cavata di fronte a un’impertinenza pari alla mia! Ma poi, procedendo nei suoi dubbi, e rimettendo il prodigio nei poteri di Dio, tutto via via diventava mirabilmente credibile! Gesù stesso, d’altronde, aveva raccontato che il Padre celeste si era rivolto a una creatura giovane e serena, capace di stupore e mitezza, e ogni cosa era accaduta secondo la volontà di Dio.[..] Il mio babbo, che con i preti andava così così, mi disse che aveva ragione don Rossi e io fui contento. Il mio babbo diceva che i Salesiani vanno rispettati. Don Bosco infatti non era mica un vagabondo».
«[..] Don Rossi giocava a pallone con noi nel campo dei Salesiani. Le squadre si chiamavano “Ausa”, che era un canale puzzolente, “Topi grigi” e “Zona infetta”. Si capisce dai nomi che eravamo in un posto mica tanto pulito ma non ci è mai venuta nessuna malattia, neanche nella melma del canale e mio padre diceva che tutto quello che non affoga ingrassa. Lo diceva per modo di dire. Io ero dell’ “Ausa” e giocavo in porta. Mia mamma mi aveva fatto le mutandine nere con l’imbottitura di fianco, così se mi buttavo sentivo meno male».
A detta dell’autore, Sergio Zavoli, “Il ragazzo che io fui” «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare scriventista, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall’immaginazione innocente di mia madre».
Così narra Zavoli, con l’abituale frase: «Come sempre, lasciamo parlare i fatti».
Pierluigi Lazzarini, Ex Allievo e Storico di Don Bosco
Fonte: Spiridon