Piemontese di Chieri, classe 1951, don Pasquero è salesiano dal 1968 e sacerdote dal 1979. Nella sua vita pastorale ha avuto vari e diversi incarichi: ha servito per due periodi nella “culla salesiana” di Valdocco, così come nell’area popolare di San Salvario, sempre a Torino; e in Valle d’Aosta, dove si è occupato della Casa per Ferie di Oulx. Ma l’esperienza certamente più sconcertante per questo salesiano, figlio di un operaio e di una commerciante, arriva quando viene assegnato ad Asti, dove arriva per gestire la palestra e il cinema Lumière dell’opera salesiana, e dove si ritrova poi quasi catapultato a stare accanto a quanti soffrono e muoiono senza il conforto dei sacramenti e privati della vicinanza di parenti e affetti.
“A febbraio 2020 – racconta – il vicecappellano dell’ospedale astigiano si era recato in India. Avevo così accettato di sostituirlo fino al suo rientro, che poi il lockdown ha impedito”. Insomma, ci si è ritrovato quasi per caso; eppure, nel mutare imprevedibile della situazione, don Pasquero ha mantenuto l’impegno assunto in tempi ben diversi, fino a ricevere anche la nomina ufficiale di vicecappellano.
Raccontando quei mesi drammatici, il sacerdote non fa giri di parole: “In terapia intensiva l’atmosfera era impressionante, tesa e frenetica. Medici e infermieri, irriconoscibili nelle loro tute di protezione, non lasciavano mai i pazienti e facevano davvero tutto ciò che era possibile, ma si sentivano impotenti e molto preoccupati. C’era la consapevolezza di essere di fronte a una malattia sconosciuta. I sanitari stavano lavorando a rischio della loro vita”.
Il sacerdote ricorda la prima volta in cui, in quel contesto davvero fuori da comune, ha dovuto dare l’Unzione degli infermi e l’insolito modus operandi imposto dal distanziamento. “Per ragioni di sicurezza, sono stato portato in una piccola stanza vetrata, da dove si intravedevano i malati: dopo aver intinto il dito nell’olio santo e averlo avvicinato al vetro, ho fatto il segno della croce e dato l’assoluzione a distanza”.
L’episodio più sconcertante per don Pasquero è legato, però, a un’altra prima volta, il momento in cui è stato chiamato per una benedizione nella camera mortuaria, in piena emergenza sanitaria. “Mi sono trovato di fronte a due bare già chiuse, solo con la targhetta del nome delle persone decedute: non c’erano accanto familiari, né amici che piangessero o pregassero per loro. Non c’erano fiori. Tutto era spoglio. Avendo chiesto spiegazioni, mi fu detto che da lì tutti partivano soli. Ricordo che rimasi senza fiato. Quella solitudine e quel senso di isolamento fuori dal normale erano troppo squallidi, troppo dolorosi. In un’altra, tristissima occasione, in cui dovevo impartire la benedizione a molte persone decedute, mi sono trovato di fronte a più bare in un silenzio assordante. Non conoscevo quei defunti, ma a tutti ho dato la mia benedizione. A volte, gli addetti alle onoranze funebri filmavano, per inviare il video ai parenti, affinché avessero almeno quella consolazione, dato che il Covid-19 non aveva loro permesso di vedere i loro cari né vivi né morti. Il cuore, ogni volta, mi si riempiva di grande angoscia”.
In quel periodo, la ricerca del conforto religioso è stata molto sentita dalla comunità, alimentando il senso di coesione e vicinanza. Prosegue ancora il sacerdote: “Alcuni operatori sanitari si sfogavano e mi chiedevano di pregare per loro. L’emergenza cresceva ogni giorno. La Domenica delle Palme 2020, un’infermiera mi chiese di sporgerle un ramo di ulivo, riferendomi che i ricoveri erano aumentati al punto da smantellare anche due sale operatorie”.
Altrettanto indimenticabile per don Pasquero è stata la riapertura delle chiese. “Ricordo il senso di liberazione quando si è potuto di nuovo celebrare la Messa in presenza dei fedeli e la commozione di alcuni di loro durante la mia prima omelia dopo il lockdown di primavera”.
Manuela Zoccola
Fonte: Gazzetta d’Alba