Alle porte di Aleppo vediamo edifici distrutti. Sono palazzi, anzi erano palazzi, perché quel che resta è solo la testimonianza di una brutalità e disumanità che non si può spiegare. Alcuni sono ancora in piedi e integri, ma non c’è più un vetro alle finestre. Danno proprio l’impressione di quartieri fantasma.
Arriviamo all’oratorio salesiano di Aleppo. L’accoglienza è calorosa e familiare. C’è aria di festa per gli ospiti. Ancora una volta i giovani siriani ci danno una bella testimonianza di cosa sia la civiltà, la buona educazione, il rispetto dell’altro e il desiderio di conoscerlo e starci volentieri insieme.
La casa salesiana si trova al centro di Aleppo, ma sulla parte Ovest della città e per questo non è stata assediata dai ribelli – ma mancavano appena 500 metri per trovarsi sulla linea del fronte di scontri furibondi. I salesiani della comunità sono quattro. Due sono appena arrivati ad Aleppo, mentre gli altri due ci hanno vissuto tutti gli anni della guerra. Può sembrare strano, ed effettivamente lo è, ma la nostra opera educativa non ha mai smesso di essere un normale oratorio aperto tutti i giorni ai ragazzi cristiani della città. E la straordinarietà sta proprio in questa ordinarietà.
L’edificio non è mai stato colpito direttamente (a parte un razzo che è entrato nella stanza accanto alla camera del direttore. I mattoni della parete gli sono arrivati addosso, senza fargli alcun male). Fatto questo che i salesiani del posto non hanno mai denunciato alle autorità perché le spie dei ribelli che carpiscono informazioni, se avessero trasmesso ai terroristi che il colpo era andato a buon fine, ne avrebbero mandato altri di razzi... Non dicendo nulla e riparando in fretta e furia il buco sul muro esterno non ci sono state altre sorprese di questo tipo.
Il giorno seguente siamo andati nei quartieri di Aleppo distrutti durante i momenti più cruenti della guerra. Ci ha accompagnati George, un Salesiano Cooperatore di 35 anni, in servizio militare permanente, reclutato all’inizio del conflitto. Nel suo plotone è stato scelto con l’incarico di assistere i feriti di guerra, proprio perché è un cristiano e ai cristiani viene riconosciuto di essere attenti agli altri in modo speciale... ce lo ha insegnato Gesù come si fa, raccontandoci la parabola del buon samaritano.
George ci ha confidato che la cosa più difficile è andare a dire ai genitori che il loro figlio è morto in guerra: “ogni volta prego il Signore perché non so cosa dire loro, come dirlo, e gli chiedo che mi metta Lui in bocca le parole giuste. È difficile e sto male, ma penso che questo sia quello che vuole ora il Signore da me e lo compio con amore e con dedizione, anche se costa”.
Un’animatrice dell’oratorio ci viene incontro e ci accompagna a vedere dove era la sua casa. Per arrivarci attraversiamo le case d’altri. Non serve chiedere permesso per entrare, si passa da un buco sul muro e si attraversano stanze vuote e distrutte.
Arriviamo in un buco dove intravediamo una scala in pietra che scende e che ha resistito alla devastazione. Ci dice che siamo entrati dalla camera da letto. Nella camera a fianco troviamo un muro di sacchi di sabbia con le feritoie che i cecchini dei terroristi usavano per sparare sui militari. I ribelli avevano usato questa casa proprio come postazione da cui colpire, ed è per questo che per stanarli, l’esercito ha sganciato una bomba che della casa non ha lasciato praticamente più nulla.
Vediamo uno spazio che doveva essere un negozio, adattato a stalla per le capre. Le capre in città! La povera gente sopravvive come può e, ora che le bombe e i cecchini tacciono, torna a casa e ricomincia la vita di ogni giorno, adattandosi.
Ad Aleppo Est, camminando fra le macerie abbiamo trovato un tratto di strada ripulito dalla polvere e dai detriti. Vi stavano seduti in cerchio un gruppo di uomini che sorseggiavano il caffè arabo e del tè. Li abbiamo salutati e abbiamo chiesto loro se potevamo fare delle foto e delle riprese video. Non solo ce l’hanno concesso, come finora avevano fatto tutti in questa terra così gentile e accogliente. Ci hanno invitato a prendere il the e il caffè con loro. Non hanno parlato della loro situazione di miseria, non hanno accusato nessuno dei loro mali, non ci hanno chiesto nulla. Sono stati loro a offrire quello che avevano e a farlo con garbo e gioia di stare insieme. Erano musulmani, lo si capiva dal vestito e da molto altro. Don Pier Jabloyan, il neo-direttore dell’opera, che ci accompagnava, si era presentato come Abuna, prete cattolico ed al petto portava ben visibile la croce dei salesiani. Il più anziano fra gli uomini seduti, il patriarca del gruppo, salutando don Pier gli ha detto: “Abuna, quello che tu porti sul petto, anch’io lo porto sul petto”. “E quello che tu porti nel cuore, anch’io lo porto nel cuore” è stata la risposta di don Pier.
Questi sono i Siriani. Questi sono gli uomini di fedi diverse abituati a convivere, a rispettarsi nelle diversità e a riconoscersi uguali nella dignità di figli dell’unico Dio/Allah.
Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito di “Missioni Don Bosco”.